che cos’è la flessibilità lavorativa.

I lavoratori di oggi sono sempre più attenti all’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Tale equilibrio si traduce spesso in maggiore richiesta di “flessibilità”: orari di attacco e stacco variabili, lavoro da remoto, etc.. Ma la flessibilità è soltanto questo? In questa nota abbiamo cercato di tracciare la storia di questo concetto in Italia per intravederne le prospettive future.

22.04.2024

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flessibilità, area chiave per l’attrattività dell’azienda

Qualche tempo fa abbiamo commentato i risultati dell’edizione 2024 del Randstad Workmonitor, l’indagine di Randstad che coinvolge circa 30mila individui in tutto il mondo per individuarne i driver motivazionali. In quell’occasione abbiamo potuto osservare come la flessibilità figuri come una delle aree chiave per aumentare l’attrattività della propria impresa e il livello di coinvolgimento dei propri collaboratori.

flessibilità: risultati italiani e globali a confronto.

Come vediamo dal grafico, il termine “flessibilità” torna spesso, in relazione al luogo di lavoro, e agli stili manageriali, ma, di fatto, che cosa significa flessibilità sul luogo di lavoro?

un po’ di storia normativa.

I principali riferimenti normativi quando si tratta di lavoro flessibile sono due: il Pacchetto Treu e la Legge Biagi.

Il “Pacchetto Treu” del 1997, composto da una Legge e due Decreti Legislativi, definisce le prime forme di flessibilità lavorativa nel nostro Paese, prima di allora non previste o proibite dal Codice Civile. Tra le varie iniziative, introduce il lavoro “temporaneo”, il lavoro interinale, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, il contratto a progetto ed istituisce i tirocini formativi. Il Pacchetto, nato ai fini di contrastare la disoccupazione, non ha avuto del tutto gli effetti sperati poiché usi distorti delle nuove forme contrattuali atipiche hanno poi contribuito a generare ciò che oggi è purtroppo noto come “precariato”. 

Nel 2003, la Legge Biagi abroga il lavoro interinale e lo sostituisce con la somministrazione di lavoro. Introduce poi ulteriori nuove forme contrattuali e prevede incentivi di agevolazione all’assunzione di soggetti svantaggiati tramite sgravi contributivi per le imprese. Il presupposto della Legge Biagi era quello secondo cui un aumento della flessibilità delle forme contrattuali avrebbe agevolato i movimenti in entrata e in uscita dal mondo del lavoro, permettendo di dare risposte più puntuali ai fabbisogni del mercato e creando nuovi posti di lavoro. Secondo tali presupposti, un sistema lavorativo rigido contribuisce a creare terreno fertile per alti tassi di disoccupazione.

dalle norme al concetto attuale di flessibilità.

Dal punto di vista normativo dunque, ad oggi, la flessibilità è intesa come un mix di forme contrattuali alternative al contratto a tempo indeterminato che da un lato dovrebbero favorire gli ingressi nel mondo del lavoro e dall’altro facilitare le assunzioni in assenza di un vincolo perpetuo per il datore di lavoro. 

Quando si parla oggi di flessibilità lavorativa tuttavia non si fa tanto riferimento alla forma contrattuale in sé, bensì a determinate caratteristiche che modellano i propri stili lavorativi anche se, se osserviamo bene, l’intento alla radice resta il medesimo: individuare forme lavorative adattabili che possano andare maggiormente incontro alle diverse esigenze personali e sociali, ai fini di migliorare la qualità del lavoro, come percepita dal lavoratore e dall’azienda. 

esempio di lavoro flessibile oggi.

Il dibattito sul lavoro flessibile oggi si concentra su due elementi principali: luogo e tempo. Per sua caratteristica, non è definito da elementi rigidi e standardizzati: la flessibilità lavorativa comprende una o più iniziative concordate tra lavoratore e dipendente ai fini di agevolare l’equilibrio tra vita lavorativa e privata. Vi sono tuttavia elementi di flessibilità piuttosto diffusi e standardizzati. In merito al luogo di lavoro abbiamo ad esempio la frequenza con la quale il dipendente è tenuto a recarsi nella sede aziendale e la sua possibilità di lavorare in un luogo differente dalla sede di lavoro abituale. Ciò si traduce in telelavoro se a sede differente corrispondono identici orari di lavoro oppure smart working se il lavoro è sia da sede differente sia concordato per obiettivi, senza la necessità di rispettare puntualmente gli orari di lavoro prestabiliti. Entrambe le forme possono differenziare poi a seconda che il dipendente possa lavorare da un’unica sede prestabilita, ad esempio la residenza, oppure da qualunque posto desideri (work from anywhere). Le forme lavorative che prevedono un mix di attività in presenza e da remoto sono definite ibride.

Rispetto al tempo, la flessibilità incide sugli orari in ingresso ed in uscita, dove a parità di ore lavorate il dipendente può concordare lo slittamento della giornata anticipandone o posticipandone l’orario di inizio. Esistono poi forme di modulazione degli orari lavorativi, dove il dipendente può concordare una giornata organizzata in blocchi con lunghe pause tra un blocco e l’altro. La settimana corta è un ulteriore elemento di flessibilità lavorativa in diffusione che prevede una riduzione della settimana lavorativa standard, generalmente prevedendo uno stacco settimanale di tre giorni anziché due. La sua applicazione avviene tendenzialmente secondo due modalità: in una prima modalità l’orario lavorativo dei quattro giorni di lavoro resta il medesimo, in una seconda modalità, le ore del quinto giorno vengono spalmate nei rimanenti quattro giorni, lasciando di fatto immutata o quasi la quantità di ore settimanali lavorate e cambiandone semplicemente la distribuzione. 

sviluppo del concetto nel tempo.

La differenza che si nota tra le iniziative legislative relative alla flessibilità e l’attenzione riposta oggi al tema è che le norme si sono focalizzate sulle forme contrattuali, mentre il dibattito attuale è concentrato su modalità di svolgimento della propria attività lavorativa, portando ancor più in avanti il concetto di flessibilità. Tali modalità, non essendo ancora normate in maniera puntuale, sono frutto di accordi interni e dunque dipendono fortemente dagli stili e dalle prerogative delle singole aziende e dei loro manager.

prospettive future.

La forte attenzione dedicata al tema della flessibilità lavorativa, in particolare dalle generazioni più giovani, si lega a molteplici fattori. Orari e luoghi di lavoro meno rigidi permettono di conciliare al meglio ad esempio la genitorialità, le attività di cura, concedono, in generale, di guadagnare tempo da dedicare alla propria vita personale, anche semplicemente risparmiando il tempo dedicato al tragitto per raggiungere il luogo di lavoro. Come abbiamo visto, l’introduzione delle forme contrattuali flessibili ha portato anche a conseguenze inaspettate e per nulla positive, come l’aumento del precariato. È legittimo ipotizzare che anche questa nuova flessibilità possa nascondere risvolti negativi? Se da un lato si critica allo stile manageriale nostrano un atteggiamento tradizionalista che predilige il controllo diretto sul dipendente, non si può tuttavia tralasciare come taluni timori potrebbero, a lungo termine, trovare fondamento, come quello di un rischio di graduale disallineamento tra i dipendenti e le loro aziende. Come stabilire poi, da remoto, un adeguato carico di lavoro che tenga conto delle peculiarità di ciascun individuo e non comporti il rischio di sovraccaricare eccessivamente i dipendenti? 

Una flessibilità eccessiva, sul lungo termine, potrebbe impattare non soltanto nel rapporto diretto con l’azienda. Il lavoro da remoto ad esempio priva chi lo svolge della possibilità di fare esperienza, nel bene e nel male, delle routine dei luoghi di lavoro, degli scambi umani e professionali tra colleghi e che innegabilmente la presenza fisica facilita. Sotto questo profilo le ricerche esistenti non mostrano ad ora un chiaro impatto positivo del lavoro da remoto sulla produttività del lavoro.  In questi termini, l’impatto di una maggiore flessibilità è per certi versi analogo a quello che la digitalizzazione crescente sta avendo nelle nostre vite, sia sul piano professionale che umano e stimola senz’altro riflessioni rispetto alla concezione stessa del senso del lavoro oggi.

Bibliografia

Decreto Legislativo 7 agosto 1997, n. 280, “Attuazione della delega conferita dall'articolo 26 della legge 24 giugno 1997, n. 196, in materia di interventi a favore di giovani inoccupati nel Mezzogiorno”

Decreto Legislativo 1º dicembre 1997, n. 468, “Revisione della disciplina sui lavori socialmente utili, a norma dell'articolo 22 della legge 24 giugno 1997, n. 196”

Legge 24 giugno 1997, n. 196, “Norme in materia di promozione dell'occupazione” 

Legge 14 febbraio 2003, n. 30, “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”

Randstad, Workmonitor, 2024

Randstad Research, Come si sentono i lavoratori italiani? I risultati dell’edizione 2024 del Workmonitor di Randstad, 14 febbraio 2024

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